In Italia, l’8 e 9 giugno 2025, si è votato per cambiare una legge che riguarda la cittadinanza. L’idea era semplice: ridurre da dieci a cinque anni il tempo di residenza necessario per poter presentare domanda. Non si parlava di automatismi o concessioni facili, ma di rendere il percorso un po’ più umano, più giusto per chi è già parte di questa società.
Il referendum non ha raggiunto il quorum, e questo significa che la proposta non è passata. È stato un momento amaro. Non solo per chi aveva riposto una speranza concreta in quel voto, ma anche per il messaggio che ne è venuto fuori: che il riconoscimento può ancora aspettare, che l’appartenenza vissuta ogni giorno può restare invisibile sulla carta.
Io questa invisibilità la conosco bene. Sono arrivato in Italia dall’Ecuador da bambino. Ho fatto qui tutte le scuole, fino all’università. Parlo questa lingua come la mia, penso in questa lingua. Le mie amicizie, il lavoro, la quotidianità: tutto è qui. Eppure non ho la cittadinanza. Come me, tanti altri vivono questa condizione paradossale: siamo parte, ma non contiamo come tali. Apparteniamo a questa terra, ma formalmente non esistiamo.
La proposta del referendum non voleva dare nulla in regalo. Voleva solo accorciare un tempo di attesa che spesso diventa una forma di esclusione. Un’attesa che pesa soprattutto sui più giovani, quelli che crescono italiani in tutto, ma si vedono negare un pezzo fondamentale della loro identità.
Come Fondazione Scalabriniana, sappiamo bene cosa significa vivere in transito, essere in cammino. E proprio per questo crediamo che dare riconoscimento a chi costruisce ogni giorno il proprio futuro in un Paese non sia una gentile concessione, ma un dovere di giustizia. Il referendum è fallito, ma il bisogno che lo ha generato è più vivo che mai. E anche la volontà di continuare a camminare, insieme, finché nessuno dovrà più chiedere il permesso per essere ciò che già è.
Cristopher Montenegro
Fondazione Scalabriniana
Ufficio Comunicazione
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