El Paso, Texas | La criminalizzazione nella migrazione

L’impatto sulle persone in mobilità umana che si spostavano dalla regione Centroamerica-Messico verso gli Stati Uniti ha subito un drastico cambiamento con l’arrivo dell’attuale presidente Donald Trump e l’imposizione della sua politica anti-migratoria tramite ordini esecutivi che hanno portato alla chiusura delle frontiere, alla mancanza di accesso all’asilo, a deportazioni di massa, alla criminalizzazione della migrazione, all’incarcerazione indiscriminata di migranti in prigioni per terroristi, alla mancanza del dovuto processo e alla violazione dello Stato di diritto e della democrazia.

L’impatto della politica è sia ad extra, riducendo fino al 95% l’arrivo di persone alla frontiera che tentavano di entrare irregolarmente nel paese, sia ad intra, per la violazione dei diritti che può subire una persona in situazione migratoria irregolare o con uno status che in passato poteva offrire sicurezza, come: visto studentesco, turistico, da ricercatore, green card o qualsiasi altro processo migratorio riconosciuto come CBP ONE, Parole e persino chi possiede la cittadinanza ma con tratti etnici che non coincidono con lo stereotipo bianco statunitense. Chi non rientra in questo stereotipo è vulnerabile.

Il 20 febbraio, un mese dopo l’insediamento di Trump, è arrivato l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), che ha fatto un’irruzione nella sua casa. Lei racconta di aver visto solo un’auto, senza sapere cosa stesse succedendo nel quartiere, dove la attendevano nove veicoli con agenti. Da quel momento tutto è cambiato nel suo ambiente.

Quando si rende conto del numero di agenti che circondavano la sua abitazione, ripete una frase che risuona nella testa e nel cuore: “Sono venuti per noi come se fossimo criminali”, e ha ragione, considerando la composizione della famiglia che non giustifica l’eccesso di forze dell’ICE. Ana (nome di fantasia per proteggere l’identità) è la capofamiglia di una famiglia monogenitoriale composta da cinque figli, tra i 13 anni e i 20 giorni “al momento dei fatti”. Racconta che era sola con i due più piccoli quando gli agenti sono arrivati alla porta e le hanno detto che aveva un ordine di deportazione. Sono entrati nella piccola roulotte dove vivono, mentre lei stringeva i figli tra le braccia.

Gli agenti sono entrati, hanno perquisito la casa per vedere se ci fosse qualcun altro, mentre la famiglia sedeva sul piccolo divano, rannicchiata come detenuti durante un interrogatorio senza fine. Questo istinto materno di abbracciare i suoi figli, oltre che proteggerli, nasce dal desiderio di non essere separata da loro; ha detto agli agenti: “Se devo essere deportata, andiamo tutti”, con la ferma intenzione di non lasciare nessuno dei suoi figli allo Stato.

Durante l’interrogatorio, gli ufficiali hanno scoperto che gli altri bambini erano a scuola, che lei si stava riprendendo da un cesareo, che sono una famiglia con una realtà migratoria mista, come tante negli Stati Uniti: alcuni figli con cittadinanza americana, altri con soggiorno regolare, e lei l’unica senza status regolare. Sono venuti per lei, per arrestarla e deportarla.

Ana risponde a tutti i criteri che l’attuale amministrazione ha nel mirino e a cui, attivamente o passivamente, è stato chiesto di andarsene, di registrarsi, o saranno multati se fermati. Tante minacce da parte del presidente per raggiungere l’obiettivo di campagna e soddisfare i suoi elettori, dichiarando fin dal suo insediamento l’impegno a “proteggere la frontiera” (OE 14165, 2025), di fronte all’arrivo di persone dal sud, considerate una minaccia alla sicurezza nazionale, da indagare e controllare al massimo grado possibile (OE 14161, 2025).

All’arrivo, ha sospeso il programma di ammissione dei rifugiati USA (OE 14163, 2025), violando un diritto umano e trattati internazionali come la Convenzione sui Rifugiati del 1951, colpendo uomini e donne fuggiti per povertà, violenza, conflitti politici e disastri naturali.

Alcune di queste cause hanno spinto Ana, nel 2019, a fuggire con i suoi tre figli dal paese natale. Mancanza di opportunità, violenza domestica, criminalità organizzata e bande, paura che i figli venissero reclutati e mancanza di prospettive l’hanno portata a partire dal Sud America verso gli Stati Uniti, attraversando più di sette paesi, arrivando al Rio Bravo e consegnandosi alla Border Patrol in un porto non ufficiale.

I figli le sono stati strappati e affidati allo Stato, mentre lei è rimasta in prigione per tre mesi, senza contatto con loro, finché il consolato del suo paese l’ha aiutata a uscire e a riunirsi con la famiglia. Come tanti altri, durante il viaggio è caduta nelle mani di trafficanti di persone senza scrupoli. Ana ha denunciato la violenza subita da questi gruppi, facendo sì che alcuni venissero arrestati. Questo è il motivo principale per cui non può essere rimandata nel suo paese, temendo ritorsioni; tuttavia, nulla di ciò cambia la politica di detenzione e deportazione.

Dovrebbe prevalere la protezione umanitaria, con un visto che la tuteli come vittima e considerando il pericolo di morte in caso di identificazione da parte dei trafficanti. La sua collaborazione con la giustizia statunitense non è stata sufficiente.

L’ingresso irregolare nel paese, secondo la politica migratoria attuale, la rende una minaccia alla sicurezza nazionale, giustificando la sua detenzione e deportazione.

Da quella visita inaspettata dell’ICE, la vita di Ana è cambiata completamente, richiedendo un accompagnamento interdisciplinare, interistituzionale, intracontinentale e spirituale per leggere la presenza di Dio in questi momenti incomprensibili, anche perché sono una famiglia di fede.

Il lavoro in rete, dal momento in cui il consolato ha contattato la missione delle Sorelle Scalabriniane nella Diocesi di El Paso, tramite il Migrant Hospitality Ministry (MHM), ha permesso di accompagnare la famiglia in questo calvario iniziato il 20 febbraio con il processo di deportazione della madre e dei figli.

Abbiamo ascoltato quanto accaduto il giorno in cui l’ICE è arrivato a casa loro, portando la madre e i due figli al Centro di Detenzione per processarli, e tornando poi per gli altri tre figli, per processare tutta la famiglia: impronte, foto, dati biometrici e personali, tutto pronto per la deportazione, di cui non si conoscono né il giorno né l’ora.

Una volta processata, le è stato messo un braccialetto GPS che la monitora giorno e notte; se manca il segnale Wi-Fi di notte, la chiamano per verificare che non sia fuggita.

Oltre al coinvolgimento del MHM, è stato necessario l’intervento di un’avvocata migratoria tramite un’organizzazione che offre servizi a basso costo o pro bono, per cercare strumenti legali e tentare di giustificare il timore di ritorno nel suo paese a causa delle denunce ai trafficanti. È stato pagato il ricorso previsto dall’ICE per fermare la deportazione, ma la risposta è stata negativa.

Sono state inviate lettere sull’impatto emotivo sui figli, con il sostegno degli insegnanti e del consolato, che è stato vicino fin dal loro arrivo. È stato fatto presente al governo quanto questa donna si impegni per i figli, quanto sia responsabile e coinvolta nella comunità e nella chiesa. Argomenti che non sono stati presi in considerazione. Qui conta solo l’applicazione della legge: essere entrata irregolarmente nel paese.

Mentre attendiamo un miracolo o un esito che non vorremmo: la sua deportazione. Il martedì della Settimana Santa, ha ricevuto una chiamata inaspettata dall’ICE per presentarsi di nuovo al Centro di Detenzione. Chi la accompagna si è chiesto: la arresteranno? La ammanetteranno? La separeranno dai figli? Cosa succederà?

Si è presentata con l’avvocata; lo scopo era metterla alle strette e accelerare la doppia cittadinanza dei due figli americani, per poter deportare tutta la famiglia in Sud America. Obiettivo raggiunto il Giovedì Santo, mentre portava altra documentazione. Racconta di essere stata circondata da altri agenti e dalla presenza di cani negli uffici amministrativi. Sotto la pressione della separazione temporanea dai figli, se non avesse collaborato, avrebbero raggiunto il loro scopo. Era l’ultimo filo della sua resistenza. Ha detto: “Non ce la faccio più, mi arrendo, fate di me ciò che volete, ma i miei figli non me li togliete”.

Suor Elisete, che la aspettava fuori dal Centro di Detenzione, racconta: “Ho vissuto il Giovedì Santo con Ana, che, come Gesù innocente, viene consegnato da Erode perché dispongano della sua vita. Ora tutto è compiuto, hanno i dati biometrici, le impronte, le foto, la documentazione e forse, mentre leggete questo articolo, sono già partiti per la loro patria. A ricominciare un progetto che non era nei piani di una madre fuggita per proteggere i figli dalla violenza e dall’insicurezza”.

Di fronte alla geopolitica migratoria attuale e alla prevalenza della legge sulla persona, voglio concludere con alcune parole di Papa Francesco (qpd), nel suo viaggio a Marsiglia (2023): “Siamo di fronte a un bivio di civiltà: o la cultura dell’umanità e della fraternità, o la cultura dell’indifferenza, in cui ognuno si arrangia come può”. Che le “Ana” che incontriamo sul cammino ci aiutino a contrastare la criminalizzazione umanizzando la migrazione.

Suor Elisete Signor e Suor Leticia Gutiérrez Valderrama
Missionarie Scalabriniane

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