«Vuoi conoscere i Waraos?», mi chiede Suor Rosita tra un pranzo fugace e il lavoro da svolgere all’IMDH. Contenta, accetto e nel giro di 15 minuti ci incamminiamo. Mentre giriamo per imboccare la strada che ci porterà al campo, rifletto sullo sforzo di questa donna, sul suo impegno e su quanto mi servirebbe un corso di portoghese! Suor Rosita parla in italiano perfettamente anche al volante e mi racconta che gli indigeni Waraos sono un popolo indigeno originario del delta dell’Orinoco, nel Venezuela nord-orientale e che dal 2016, molti Warao, come altri gruppi indigeni venezuelani, sono stati costretti a migrare a causa della grave crisi socioeconomica e umanitaria nel loro Paese. Dopo aver attraversato il confine tra Venezuela e Brasile, molti si sono spostati verso diverse città brasiliane, tra cui Manaus, Boa Vista, Belém e Brasília, in cerca di accoglienza, assistenza sanitaria e condizioni di vita migliori.
La tipicità nomade e libera dei Waraos ha fatto sì che, nel tempo, una parte di loro abbia sentito il bisogno di un terreno proprio, un posto in cui vivere secondo regole e costumi propri. E così è successo: poco tempo fa, 138 di loro si sono trasferiti in un campo e lì, con l’aiuto di UNHCR, IMDH e altri partner virtuosi, piano piano hanno messo radici.
Giunte al campo, ci accolgono due donne e il capogruppo. Con gioia abbracciano Suor Rosita e un po’ tutte noi. Ci raduniamo al centro, sotto una capanna ricostruita secondo lo stile indigeno, con struttura in legno e palme a ricoprire il tetto. Attorno a noi cani, galline, bambini impolverati che giocano a piedi nudi con un camioncino di plastica, mentre molte donne, avvolte in fusò dai colori sgargianti, si avvicinano curiose. Dietro di noi, intanto, si sta svolgendo una partita di calcio tra adolescenti Waraos: polvere, piedi nudi, pantaloncini, pallone e magliette di squadre diverse.
Sotto la capanna inizia uno scambio sincero, di storie e sorrisi. Dopo una breve spiegazione di Suor Rosita sulla nostra presenza al campo, il capogruppo ci racconta la loro storia, come sono arrivati lì e il lavoro che stanno ancora facendo per migliorare quel posto. Ci dice che i bambini adesso vanno a scuola, che lui lavora come mediatore. Mentre ci parla della loro fede ci indica un uomo anziano seduto al sole, dice che visto che la notte cala il freddo quell’uomo piccolo con il viso disegnato dalle rughe trascorre la giornata a dormire al sole. “Servono coperte” ci dice Diciamo che ne abbiamo portate un po’.
Nel frattempo, le donne e le ragazze preparano due tavoli, su cui sistemano con cura una scatola da cui tirano fuori una ventina di collane, bracciali e altri piccoli oggetti fatti a mano. Ciascuno ci mostra un manufatto diverso, frutto di pazienza, gusto e creatività. Le suore che mi accompagnano sono abituate e mi fa molta simpatia vedere come donne diverse si scambiano braccialetti e collane insieme a complimenti e sorrisi. Invitata anch’io a scegliere, prendo un bracciale per mia figlia e mentre lo tengo tra le dita, una suora chiede: «Di chi è?» e una ragazza, super entusiasta, alza la mano e dice: «Mio!».
Suor Rosita mi spiega che hanno svolto un progetto di artigianato per imparare a intrecciare perline e creare queste collane che sembrano ricami colorati. Chi vuole può sceglierne una e lasciare una donazione come ricompensa per il lavoro svolto. Resto colpita, non tanto dall’entusiasmo della “vendita”, ma dall’incredulità che mi comunicano quegli occhi, rispetto al fatto che ho valutato come bello proprio il suo bracciale, il suo lavoro, la sua creatività.
Durante il nostro tempo insieme, Suor Rosita ci racconta anche le difficoltà che questo gruppo incontra nel processo di integrazione nella società brasiliana: un po’ per cultura, un po’ per età. Gli anziani vivono spesso di elemosina o di lavoretti occasionali legati alla propria comunità. I giovani invece sono diversi. Proprio quei ragazzi che giocavano a calcio poco prima, sono diversi: molti vanno in città, vanno a scuola e mostrano meno desiderio di restare in campagna.
«Lavoriamo», ci dice Suor Rosita, «affinché proprio queste generazioni possano avere maggior sostegno nel trovare un lavoro e migliorare le proprie condizioni. Perché in futuro, altrimenti, sarebbe ancora troppo incerto, non solo per loro ma per l’intero gruppo».
Mentre ci allontaniamo dal campo dopo la visita, il capogruppo ci ricorda: «Le coperte…». mentre ripercorriamo la strada sterrata per rientrare, riempio Suor Rosita di domande… non conoscevo questa realtà e tanto di più vorrei conoscere.
Se dopo aver letto questa storia e visto le immagini vuoi darci una mano a comprare le coperte o anche solo a fare la differenza per queste persone, scrivici a info@scalabrinianfoundation.org o manda messaggio whatsapp al 3515152363. Anche un piccolo gesto porta speranza!
Gaia Mormina
Fondazione Scalabriniana
Segretaria Generale
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